La leggenda del Frate di Roma e la vincita dell’aprile 1963 raccontata da Alcide, con l’Ambo 43-44
Storie e Miracoli del Lotto
Mentre camminavo per i vicoli di Roma, schivando pozzanghere che riflettevano un cielo plumbeo e incerto, pensavo a quanto questa città sia cambiata e, allo stesso tempo, a quanto sia rimasta ferocemente aggrappata alle sue pietre miliari. Il traffico di Via del Corso sembrava un fiume in piena, rumoroso e moderno, ma appena ho svoltato l’angolo per raggiungere la bottega di Alcide, il tempo ha rallentato, quasi si fosse vergognato di correre così in fretta di fronte a tanta storia.
La vecchia insegna, logora, “Lotto e Ricevitoria” scricchiolava leggermente al vento, come se fosse ancora aperta al pubblico. Entrare da Alcide è come varcare una soglia dimensionale. L’odore è sempre quello: un misto di carta vecchia, inchiostro, tabacco da pipa e quella polvere sottile che sembra posarsi solo sulle cose preziose. Lui era lì, seduto sulla sua poltrona di velluto ormai liso, con gli occhiali calati sulla punta del naso e un registro degli anni ’60 aperto davanti a sé. La luce ambrata della lampada da tavolo illuminava le sue mani, segnate dal tempo e da migliaia di scontrini staccati.
«Gino, giovanotto, entra pure,» mi ha detto senza alzare lo sguardo, come se avesse riconosciuto il mio passo. «Chiudi bene la porta, che l’umidità fa male alle ossa e ai ricordi.»
Mi ha fatto cenno di sedermi sullo sgabello di legno. Ha preso una bottiglia di rosso dei Castelli e ne ha versato un bicchiere per me e uno per sé. «Oggi, Gino, il registro si è aperto da solo qui,» ha detto, picchiettando l’indice su una pagina ingiallita, piena di numeri scritti con una calligrafia elegante e precisa. «Aprile 1963. Una primavera strana, proprio come questa. E c’è una storia, legata all’Ambo 43-44, che ancora oggi, se ci penso, mi fa venire i brividi lungo la schiena. Mettiti comodo, perché questa non è solo una storia di numeri, è una storia di fede e di mistero.»
Il Racconto di Alcide: Il Frate e la Profezia di Roma
«Vedi Gino,» ha esordito Alcide, facendo ruotare il vino nel bicchiere, «Roma nel ’63 era diversa. C’era il boom economico, sì, le prime 600 sfrecciavano per le strade, la gente aveva voglia di riscatto, di soldi facili, di sognare. La mia ricevitoria, a quei tempi, era un porto di mare. Il sabato pomeriggio, prima dell’estrazione, la fila arrivava fino al marciapiede opposto. C’era il macellaio, la sarta, l’impiegato del ministero e la nobile decaduta. Tutti uguali di fronte alla speranza del terno secco.»
Alcide ha fatto una pausa, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco un ricordo lontano. «Era un sabato di dei primi d’aprile aprile. Il cielo minacciava pioggia, proprio come oggi. La ricevitoria era piena zeppa, un vociare confuso di numeri, sogni e lamentele. In quell’atmosfera carica di fumo e aspettative, la porta si aprì cigolando. Entrò una figura che fece calare improvvisamente il silenzio. Era un frate. Un questuante, di quelli che si vedevano spesso allora, con il saio marrone logoro, i sandali ai piedi nonostante il freddo umido e una bisaccia di tela grezza a tracolla.»
«Non era un frate imponente, anzi. Era piccolo, curvo, con un viso scavato ma due occhi che sembravano carboni ardenti. Si chiamava, o almeno così dicevano, Fra’ Anselmo. Avanzò tra la gente, che si scostava quasi con timore reverenziale. Non chiedeva soldi con insistenza, tendeva solo la mano, mormorando preghiere a fior di labbra. Qualcuno, sai com’è la gente, si voltò dall’altra parte, infastidito che la “sfortuna” o la miseria entrassero nel tempio della fortuna. Ma molti altri, i più semplici, i più veri, misero mano alla tasca.»
«Ricordo il Sor Augusto, il fornaio qui all’angolo. Gli diede cento lire, una bella somma per l’epoca. E poi la Sora Maria, che faceva le pulizie al Ministero, gli allungò qualche spicciolo. Il frate ringraziava tutti con un cenno del capo. Arrivato proprio davanti al bancone, dove io stavo timbrando le giocate, si fermò. Si girò verso la folla che lo guardava in silenzio e disse, con una voce che sembrava uscire da una caverna ma limpida come cristallo: “Figlioli, la carità apre le porte del Cielo, ma a volte socchiude anche quelle della Terra. Ricordatevi questo: il 43 cammina solo, ma quando si ferma, chiama sempre il suo fratello maggiore, il 44. Chi ha orecchie per intendere, intenda, e chi capisce ne avrà merito.”»
«Gino, ci fu un attimo di smarrimento. Qualcuno ridacchiò. “I numeri dei frati!” esclamò uno scettico in fondo alla sala. “Ma andasse a pregare!”. Ma io vidi gli occhi del Sor Augusto e della Sora Maria incrociarsi. E non solo loro. Iniziarono a bisbigliare. “Hai sentito? 43 e 44“. Alcuni stracciarono le schedine già pronte per rifarle. Io, dietro il banco, non mi fermai un attimo. Iniziai a battere ambi su ambi: 43-44 su Roma. Perché il frate era a Roma, e a Roma parlava.»
«Il frate uscì, scomparendo nella pioggerellina sottile. Arrivò l’ora dell’estrazione. Sai, allora non c’erano i computer, si aspettava il bambino bendato, si aspettava il telegrafo. Quando arrivarono i numeri da Piazza Montecitorio, il silenzio in ricevitoria era tagliente. Primo estratto… 44. Secondo estratto… 43. Un boato strozzato… il cuore mi batteva in gola, Gino, te lo giuro.
«Successe il finimondo. Abbracci, gente che piangeva, cappelli lanciati in aria. L’Ambo secco! Avevano vinto in tanti, non cifre da cambiare la vita ai ricchi, ma da raddrizzare l’anno ai poveri sì. Il Sor Augusto piangeva come un vitello. La Sora Maria baciava il bancone.»
«Ma la storia non finisce qui,» continuò Alcide, abbassando la voce e sporgendosi verso di me. «Il lunedì successivo, un gruppetto di vincitori, guidati dal fornaio, decise di andare al convento di San Bonaventura, da dove si diceva venisse il frate, per portargli una parte della vincita. Volevano ringraziarlo, sdebitarsi. Arrivarono al portone, chiesero di Fra’ Anselmo al frate portinaio, un omone grande e grosso.»
«Il portinaio li guardò sbiancando in volto. “Fra’ Anselmo?”, chiese con un filo di voce. “Ma fratelli miei, Fra’ Anselmo è tornato alla casa del Padre sabato mattina, poco prima di mezzogiorno. È spirato nella sua cella, pover’uomo.”»
«Il gelo scese sui presenti. Sabato mattina? Ma se era stato in ricevitoria nel pomeriggio! “Impossibile!”, gridò il Sor Augusto. “Era da noi, ci ha dato i numeri!”. Il portinaio scosse la testa e li portò nella cella del defunto, dove il corpo era ancora composto in attesa delle esequie. Era lui. Non c’erano dubbi. Ma la cosa che fece tremare le ginocchia a tutti fu quando il portinaio indicò la sua vecchia bisaccia, posata su una sedia. “Guardate,” disse il frate, “non aveva nulla, solo questo, che non sappiamo come interpretare.”»
«Aprirono la bisaccia. Dentro non c’era né pane né denaro. C’era solo un vecchio foglio di carta, piegato in quattro. Lo aprirono con mani tremanti. Sopra, scritto con una calligrafia tremolante ma chiara, c’era la data di quel sabato: 6 Aprile 1963. E sotto, disegnati a carboncino, due numeri cerchiati: 43 e 44. E una frase in latino: “Post Tenebras Lux”, dopo le tenebre la luce.»
«Alcide sospirò, guardando il fondo del suo bicchiere. “Nessuno seppe mai spiegare cosa accadde davvero quel giorno, Gino. Se fu uno spirito, una bilocazione, o solo una coincidenza incredibile condita dalla suggestione popolare. Ma io i soldi delle vincite li pagai tutti, fino all’ultima lira. E quel foglietto… beh, quel foglietto dicono sia ancora conservato tra le reliquie del convento.”»
La Cabala della Storia
Alcide si è schiarito la voce, tornando al suo ruolo di esperto interprete della Smorfia. Ha preso una matita spuntata e ha iniziato a scrivere su un pezzo di carta da pacchi.
«Vedi Gino, i numeri non sono mai casuali. In questa storia, ogni elemento grida un significato preciso. Analizziamo quello che è successo con la logica della Cabala, quella vera.»
- Il 43: «Nella storia il frate dice “il 43 cammina solo”. A Roma, il 43 è spesso associato alla Donna al Balcone, ma in questo contesto religioso e mistico, rappresenta un momento di attesa, qualcosa che sta per accadere ma non è ancora compiuto.»
- Il 44: «Le Carceri. Ma attenzione, non intese come prigione fisica. Qui il 44, che segue il 43, rappresenta la liberazione dalla prigionia del bisogno. È il numero della “successione obbligata” di cui parlava il frate. Insieme, 43 e 44 formano un ambo vertibile di decina, una potenza matematica.»
- Il Monaco (o Frate): «Nella Smorfia Napoletana il monaco fa 37. Ma se è un frate che chiede l’elemosina, spesso si gioca anche il 32 (il povero).»
- Il Morto che Parla: «Qui casca l’asino, come si suol dire. Il frate era morto quando è apparso? Allora entra in gioco prepotentemente il 47 (il Morto) e il 48 (il Morto che parla).»
«Quindi, caro amico mio, la lezione di quella giornata non fu solo l’ambo secco. Fu la dimostrazione che i confini tra i mondi sono sottili, specialmente quando c’è di mezzo il Lotto.»
Il Collegamento con l’Oggi
Riprendo la parola io, Gino Pinna, ancora scosso dal racconto di Alcide. Mentre lui riponeva il vecchio registro, ho riflettuto sul perché questa storia sia emersa proprio oggi. Ho dato un’occhiata rapida alle estrazioni recenti sul mio tablet (sotto lo sguardo un po’ diffidente di Alcide verso quella “tavoletta luminosa”).
C’è una convergenza straordinaria. Sulla ruota di Roma, l’ambo in figura (quindi numeri che distano poco o hanno radici simili) sta tardando in modo sospetto. Ma non è tutto: il numero 43 è attualmente uno dei ritardatari “giovani” che sta accumulando estrazioni di assenza, proprio mentre il 44 è uscito da poco su Tutte ma si nasconde sulla Capitale. Sembra quasi che i numeri si stiano riallineando come in quel lontano 1963. La “chiamata” del frate potrebbe essere valida ancora oggi? Statisticamente, la coppia consecutiva 43-44 su Roma ha un ciclo di frequenza che si sta chiudendo proprio in queste settimane.
I Numeri della Memoria
📜 L’Antica Giocata di Alcide
Ruote Consigliate: [ROMA] e [TUTTE]
Ambata della Storia: 43
L’Ambo dei Ricordi: 43 – 44
La Terzina Completa:
43 – 44 – 47
(Dall’archivio storico di Alcide: Il 47 per il “Frate che non c’era”)
Conclusioni
Alcide ha chiuso il registro con un tonfo sordo, sollevando una nuvola di polvere che ha danzato nella luce della lampada. «Vedi Gino,» ha detto, finendo il suo vino, «le storie non invecchiano mai, sono le persone che smettono di ascoltarle. Quel frate, vivo o morto che fosse, ha regalato speranza. E il Lotto, alla fine, è proprio questo: vendere un sogno al prezzo di un caffè.»
Sono uscito, da quella che era la sua vecchia ricevitoria, con quella sensazione dolceamara che solo i racconti di Alcide sanno lasciare. Fuori pioveva ancora, ma stringevo in tasca un pezzetto di carta con tre numeri segnati. Chissà che il vecchio Fra’ Anselmo non abbia ancora voglia di fare un miracolo.
Un saluto a tutti gli amici di LottoGazzetta,
Gino Pinna
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